Pietro Osella

UN CONTADINO NELLA GRANDE GUERRA

Diario (1916-20)

A cura di Valter Careglio e Liliana Ellena, L'Altromodo, Frossasco (To), 1995. La presente edizione mantiene la struttura del testo stampato, senza note e con alcune parti rivedute.

 

 

 

 

 

 

INDICE

Introduzione

Macello è un piccolo paese agricolo della provincia di Torino, situato nella pianura pinerolese a ridosso del torrente Chisone, a metà strada fra Pinerolo e Vigone. Qui comincia l'avventura di Pietro Osella, classe 1897, contadino partito con alcuni suoi compagni per il fronte nell'ottobre del 1916.

A ottant'anni dall'ingresso dell'Italia nella I Guerra Mondiale, mi accingo a pubblicare il suo diario di guerra rinvenuto fra le sue carte dopo la sua scomparsa. Uomo mite e intelligente, era dotato di una discreta cultura: le pagine del diario mostrano, infatti, oltre a un buona calligrafia, uno stile lineare sintomo di una buona familiarità con la scrittura. La conferma ci è data anche dalle pagelle scolastiche conservate nell'Archivio Comunale di Macello: esse ci dicono che il suo rendimento fu sempre buono, nonostante la sua frequenza scolastica diventasse saltuaria dal mese di aprile, quando si intensificavano i lavori agricoli in campagna. La sua passione per la scuola, dopo i primi tre anni, lo indusse a proseguire gli studi in un corso serale che gli permise di ottenere la licenza elementare.

Svolse l'attività di agricoltore per tradizione e vocazione: il padre, Antonio, classe 1863, proveniva da una famiglia di braccianti giunti a Macello da Barge e fu tra i primi fondatori della Società Operaia di Macello. Allo scoppio della guerra la famiglia Osella era composta da Antonio, dalla moglie Anna Porporato, classe 1873, e dall'unico figlio maschio Pietro; la sorella maggiore a quell' epoca era già sposata. Nelle carte d'archivio essi risultano essere fittavoli che gestivano una cascina di "43 giornate di terreno coltivo, 40 campi, prati e vigna pari ad ettari 16,38", di proprietà della famiglia Peruglia.

Ritornato dal servizio militare, Pietro sposa Margherita Prone, che aveva conosciuto prima di partire per il fronte, dal momento che lei prestava servizio dal medico condotto Beruto, abitante in un palazzotto vicino alla proprietà e all'abitazione dei Peruglia. Tutte queste combinazioni, come si vedrà nella lettura del diario, anche se tra la righe, non saranno ininfluenti per le sorti di Pietro in guerra. Il dottor Beruto aveva infatti un fratello generale che prestava servizio nei Bersaglieri e trascorreva le sue licenze a Macello. Le buone relazioni amicali tra la mamma di Pietro, Anna, e la signora Peruglia Maria, madrina di battesimo di Pietro, unitamente a quelle tra la famiglia Beruto e la famiglia Peruglia, condizionarono non poco il destino di Pietro in guerra: secondo la testimonianza del figlio Mario, Anna Osella e Maria Peruglia cercarono in più occasioni aiuto presso il generale, ottenendo due licenze, di cui una - se si presta attenzione al diario - fu veramente determinante: mentre Pietro era in licenza la sua compagnia fu infatti trasferita sull'altopiano della Bainsizza dove venne presto decimata. Quando poi Pietro tornò al fronte, al suo arrivo raggiunse un'altra destinazione: sul fronte Carsico, dove le operazioni avevano più carattere difensivo che offensivo.

Al di là della testimonianza del figlio Mario, la buona relazione di Pietro con Beruto è confermata anche dal ritrovamento, fra le sue carte, di un necrologio relativo alla morte del generale, tratto da un giornale dell'epoca (non siamo riusciti a sapere quale), che ripercorre la carriera dell'uomo:

LA MORTE DEL GENERALE BERUTO: La gloriosa carriera: da Abba Garina al Carso alle Argonne. Si è spento ieri nella nostra città S.E. il generale di Corpo d'Armata Giovanni Beruto.

Uscito sottotenente dei Bersaglieri dalla scuola militare di Moderna, il valoroso ufficiale ascese nel glorioso corpo di tutti i gradi fino a generale. Fu uno tra i primi a partire per l'Eritrea, ove rimase sette anni, e combatté a Cassala, ad Abba Garima, a Coatit, e ad Adua meritandosi tre medaglie al V.M.

Destinato al comando del battaglione ciclisti del 1° Bersaglieri, con questa unità da lui forgiata ed addestrata entrò nel 1915 in guerra ed alla testa dei suoi piumati salì alla conquista del Monte Sei Busi, che consacrò con il suo sangue.

Guarito dopo lunghe cure, assunse il comando dell'11° Bersaglieri nel quale già combatteva il Volontario di guerra Benito Mussolini e fu sul Kukla, in Carnia e sul carso a quota 144.

Per la promozione a generale fu destinato alla brigata Cremona. Con essa e con altre unità raccolte sotto il suo comando il generale Beruto, nel Novembre 1917, tenne testa sul Monticano al nemico incalzante, lo arrestò e guadagnò così la quarta medaglia al valore e il comando dell'8a Divisione.

Con questa e con la 3a Divisione (Pittaluga) entambe del 1° Corpo d'Armata Albricci, fu in Francia. Nelle Argonne e alla seconda Battaglia della Marna, l'ottava Divisione fu duramente provata ma nonostante le perdite subite, durante la battaglia di Chemin des Dames seppe riconfermare le alte virtù militari degli italiani.

La promozione a generale di Corpo d'Armata, il passaggio nella riserva, e il conferimento della Medaglia d'oro per il lungo comando chiusero la sua nobile vita militare.

Alla fine del secondo conflitto mondiale, Pietro, giunto senza figli alle soglie dei cinquant'anni, si risolse ad adottarne uno, Mario. La scelta dell'adozione si rivelerà determinante per il suo futuro. Infatti sette anni dopo moriva la sua compagna. Da allora Pietro visse, fino alla sua morte, con il figlio adottivo che seguì e sostenne, anche se le sue scelte di vita lo portarono a vivere lontano dalla campagna.

Sulla mitezza e sulla disponibilità del carattere di Pietro le testimonianze sono a dir poco copiose. Stimato dai suoi compaesani, non amava mettersi in mostra e visse un'esistenza tranquilla, quasi nell'ombra. Tuttavia, sappiamo, dalla testimonianza del figlio Mario, che almeno le sue relazioni famigliari non furono sempre lineari. Uno scontro generazionale lo opponeva al padre, al quale rimproverava l'eccessivo altruismo e la disponibilità verso il prossimo che, a parere di Pietro, lo portavano spesso a trascurare gli interessi economici della famiglia: tutto ciò può anche essere spia di un cambiamento di mentalità, dovuto a una crescita economica della famiglia che vedeva contrapposto un bracciante, divenuto fittavolo a un fittavolo prossimo a divenire un piccolo proprietario. Al contrario con la moglie Anna, donna alquanto autoritaria, Pietro dimostrò sempre grande disponibilità e comprensione.

Certamente coraggiosa e anticonformista fu la scelta dei due coniugi dell'adozione, non sempre compresa da tutti. Qualcuno potrebbe essere tentato di pensare che Pietro avesse bisogno di braccia: la storia del figlio, entrato ancora minorenne alla FIAT, smentisce invece questa tesi. Anzi la testimonianza di Mario ci offre l'immagine di un uomo molto pacato e ben disposto nei confronti delle scelte del figlio, anche quando queste non erano da lui condivise. La riprova di tutto ciò è proprio la scelta di abbandonare l'orizzonte contadino per seguirlo in città.

I rapporti di Pietro con la politica sono emblematici di quelli di tanti contadini dell'epoca. Visse, più che con fastidio, con grande indifferenza gli anni del Regime. Io stesso l'ho sentito tante volte lamentare i soldi spesi per l'acquisto di una camicia nera, in occasione della visita di Mussolini a Pinerolo, nel 1939. Soprattutto seppe mantenere un criterio di valutazione delle persone che prescindeva dal colore politico, ma era esclusivamente riferito all'atteggiamento che esse mantenevano nei suoi riguardi; in questo senso vanno interpretati i numerosi aneddoti, più volte raccontati da lui, nei quali emerge l'astio tanto nei confronti del capo della milizia fascista, persona arrogante e prepotente, quanto nei riguardi delle operazioni di prelievo di grano e viveri, operate tanto dai fascisti quanto dai partigiani.

Una precisa annotazione dello stesso Pietro ("Questo diario l'ho scritto dopo cinquant'anni") fa risalire la stesura del diario alla fine degli anni Sessanta: esso è il frutto di un accorpamento di foglietti e notazioni sparse - nonostante la conclusione in cui l'autore fa appello alle proprie abilità mnemoniche -, raccolte da Pietro durante e dopo la guerra, che però non sono stato in grado di rintracciare. Ci troviamo di fronte a un'operazione di riscrittura su una memoria ormai stratificata e rielaborata nel corso del tempo. Ma il tratto singolare è che l'operazione di accorpamento e riscrittura è doppia. Sono infatti in possesso di due versioni dello stesso diario: una prima e una seconda stesura che, come afferma lo stesso Pietro, è "più ben compilato". Dovendo operare una scelta ho optato per la pubblicazione integrale della prima redazione, perché più ingenua, ma, appunto per questo, più spontanea - per quanto possa essere definita spontanea una rielaborazione avvenuta nel tempo. Con qualche eccezione relativa alla forma e all'indicazione di luoghi, le due versioni concordano sostanzialmente; nella seconda stesura è stata però aggiunta una pagina che ho riportato indicandone espressamente la provenienza dal secondo quaderno.

Per quanto riguarda la forma, pur non ritenendo necessaria la trascrizione degli errori di ortografia e pur essendo intervenuto sulla punteggiatura e sulla paragrafazione, al fine di rendere il testo più leggibile, ho voluto però rispettare la sintassi e il lessico, nella convinzione che questi due elementi qualifichino uno stile e il riflesso di una lingua parlata che vale la pena di registrare.

Ho inserito in nota la spiegazione di parole che non mi parevano sempre sufficientemente chiare e in parentesi quadre sillabe e parti del discorso che contribuissero e rendere il testo più leggibile. Inoltre l'ho arbitrariamente diviso inserendo dei titoli in corsivo. Infine, dal momento che esso si presenta cosparso di notazioni cronologiche abbastanza puntuali, ho pensato di inserire alcuni riquadri, ricavati dalla cronologia del libro di Piero Pieri, L' Italia nella prima guerra mondiale , per offrire al lettore qualche riferimento in più sull'andamento generale della guerra.

 

Che cosa spinge Pietro a riprendere in mano i propri appunti, articolandoli in un diario? Nelle pagine che seguono il testo Liliana Ellena tenterà una risposta forse più generale, ma sulla base dell'aneddotica, sovente udita nei racconti familiari mi sembra che si possa qui tentare una prima risposta: essa risiede, a mio parere, nella necessità di un dialogo tra le generazioni. Quando Pietro comincia a scrivere (o a riscrivere) è già nonno. Fin dalla mia infanzia, ho udito i suoi racconti di guerra, e più volte, trovandomi ad attraversare un ponte per mano con lui, mi sono sentito ripetere: "Sul ponte di Bassano noi ci darem la mano". Non vorrei qui rischiare l'apologia famigliare, ma non è improbabile che, man mano che crescevo e che cresceva il mio interesse per la Storia e per la sua storia, egli abbia deciso di mettere per iscritto tutta la ricchezza della sua esperienza a vantaggio di una mia migliore comprensione di quei luttuosi eventi.

Il documento che ci ha consegnato è, a mio parere, straordinario. Non perché non esistano testimonianze sulla prima guerra mondiale - si pensi anche solo all'ampia raccolta di Nuto Revelli o alla diffusa diaristica sull'argomento -, ma perché qui siamo di fronte a un'operazione spontanea di rielaborazione, che, dopo 40 anni di retorica nazionalista, assume comunque toni molto pacati e realistici. Ad esempio, in tutto il diario la parola barbaro per indicare gli Austriaci compare una volta sola: Pietro preferisce infatti indicarli come uomini che sono costretti a vivere una condizione analoga alla sua.

Chi scrive è un pluridecorato, eppure dalle sue parole non trapela odio nei confronti del nemico; egli appare troppo concentrato su se stesso e sulla propria voglia di sopravvivere per concedersi a sentimenti patriottici: eccolo allora esprimere un senso di fastidio per l'essere presi continuamente a bersaglio dai cecchini, un senso di nausea quando gli viene affidata la sorveglianza di prigionieri sporchi e puzzolenti, unitamente a un senso di paura perché essi sono molti da tenere a bada per un uomo solo.

Al tempo stesso l'autore del diario non ci risparmia gli orrori della guerra, descritti con realismo e freddezza: spostamenti su campi cosparsi di cadaveri in putrefazione dai quali si staccano parti del corpo, l'insidia continua del nemico, il ritrovamento di un gruppo di soldati sorpresi e uccisi dagli austriaci mentre consumavano il pasto ("le gavette erano ancora piene"), l'uso dei gas lacrimogeni di fronte al quale i respiratori si rivelano spesso insufficienti, le conseguenze del freddo dell'inverno e quelle dei combattimenti estivi nelle zone malariche, la distruzione di ogni cosa durante la ritirata di Caporetto.

Tuttavia, nel testo, parole come patria sembrano non trovare alcuno spazio e sono veramente poche le tracce della retorica declamatoria che seguirà alla vittoria di Vittorio Veneto. Poche anche le tracce della retorica interventista che raggiunge l'apice nel discorso di D'Annunzio a Quarto il 15 maggio 1915, con il quale chiama alla guerra i contadini: "Beati quelli che hanno vent'anni, una mente casta, un corpo ben temprato; beati quelli che, aspettando e confidando, non dissiparono la loro forza, ma la custodirono nella disciplina del guerriero; beati quelli che disdegnarono gli amori sterili, per essere vergini a questo primo ed ultimo amore [la guerra]; beati i misericordiosi, perché avranno da tergere il sangue splendente, da bendare un raggiante dolore".

Nel diario di Pietro compaiono invece termini che Tullio De Mauro ha registrato come neologismi derivanti dalla Grande guerra: parole come cecchino usata nel senso di "austriaco, tiratore scelto austriaco" che sembra che derivi da cieco o dal nomignolo di Francesco Giuseppe, Ceco Beppe, imperatore d'Austria; oppure espressioni come marcare visita, alquanto inusitate prima del conflitto mondiale.

Ma soprattutto Pietro è crudo nelle sue descrizioni, ci presenta gli orrori della guerra così come li ha vissuti e talvolta rasenta persino una discreta ironia, per quanto si possa ironizzare su una tragedia collettiva come questa. Non trapela dunque da queste pagine la retorica dell'eroismo, ma un disperato tentativo di sopravvivere e il rimpianto per i compagni caduti. Indicativo, in proposito, è l'episodio della morte di un capitano, che egli registra come una vera "fortuna" che dà modo a lui e ai suoi compagni di evitare lo scontro diretto con gli Austriaci.

Tutto ciò non può che lasciarci sconcertati e meriterebbe sicuramente una riflessione più attenta; in altre parole sembra alquanto curioso che in pagine scritte dopo quarant'anni di celebrazioni, non traspaia affatto tra le righe la retorica del sacrificio e della vittoria, sulla quale la propaganda nazionalista (cfr. Appendice documentaria) ha tanto a lungo insistito. E' assai difficile tentare una spiegazione, però quando guardo alla retorica resistenziale, all'ombra della quale la mia generazione è cresciuta, mi viene da pensare che questa abbia sicuramente contribuito a mettere in secondo piano le celebrazioni dei cavalieri di Vittorio Veneto, realizzando una sorta di "congelamento" della memoria che essi conservarono di quegli eventi.

Pietro, pur insignito del titolo di Cavaliere di Vittorio Veneto, sembra infatti aver mantenuto integra la sua mentalità di contadino dell'epoca; e che i contadini fossero, ovviamente, poco sensibili alle ragioni della guerra e della patria nel 1915, è un dato sul quale Nuto Revelli ha scritto delle pagine di grande chiarezza:

Il contadino non crede nei "sacri destini della Patria", non capisce gli avvenimenti che stanno bruciando l'Europa. "Il dovere" è l'unico imperativo che la patria gli appiccica frettolosamente sull'uniforme. I tempi sono brevi, la guerra è guerra, quel che conta è disporre di un "materiale umano" che subisca, che si pieghi, che accetti comunque di andare al massacro. Sarà poi la vita di linea, sarà poi la vita al fronte che farà scattare le molle della rabbia e dell'emulazione. Nel vivo del combattimento le armi spareranno da sole. Ci saranno i compagni da vendicare, ci saranno le "licenze premio" e le medaglie, crescerà il cosiddetto "spirito di corpo" [...]. Nascerà anche il mito del valore.

[...] Negli anni 1915-18 i contadini imparano la topografia di alcune zone dell'Italia. Un po' imparano anche la geografia dell'Europa. I miei testimoni, i miei cavalieri di Vittorio Veneto, sanno tutto del Friuli, del Trentino, del Carso. [...]

Il nostro documento conferma queste tesi di fondo e dimostra ancora una volta - per quanto banale e ovvia possa apparire questa verità dopo lavori come quello di Forcella e Monticone sull'autolesionismo - che in guerra, almeno tra le classi subalterne, non ci furono "eroi" o "disfattisti", come li definì il Comando Italiano all'epoca, bensì uomini che, senza comprendere le finalità del loro agire, erano quotidianamente costretti ad assistere ad uno spettacolo di orrore, nella speranza di tornare un giorno a casa. Pietro partì per il fronte nell'ottobre del 1916, ma non poté tornare a casa se non molto tempo dopo che la guerra era terminata, nel gennaio del 1920.

Il lavoro che prestò nei campi a fianco del padre, durante la guerra, fra una licenza e l'altra, ci offre anche un indizio di quanto la guerra abbia pesato sulle spalle dei contadini, non solo al fronte, ma anche a casa.

Al di là di queste brevi considerazioni introduttive, mi è parso che il documento meritasse un'analisi più attenta, soprattutto per quanto riguarda la sua struttura narrativa: le brevi ma efficaci notazioni di Liliana Ellena, studiosa esperta di diaristica, poste alla fine del testo, sono state pensate appunto nella prospettiva di individuare le peculiarità di questo diario rispetto al genere a cui appartiene. Il lettore troverà sicuramente in esse ulteriori stimoli di riflessione.

Questo lavoro è nato soprattutto, oltre che per valorizzare l'Archivio Comunale di Macello, con un intento didattico: quello di offrire materiale documentario a studenti e insegnanti per riflettere ed elaborare ipotesi di ricerca storiografica che vadano al di là dei pochi spunti di riflessione sul quotidiano durante la guerra che i manuali scolastici offrono. Sono consapevole del fatto che esistono opere esaustive sull'argomento: basterebbe citare Il mito della Grande Guerra di Mario Isnenghi, ripubblicato da Il Mulino nel 1979, ma un testo del genere mal si presta ad un utilizzo scolastico compatibile con il rispetto dei programmi ministeriali che destinano allo studio della storia due sole ore settimanali. Al contrario, un testo breve come questo, se si tiene conto in modo positivo dell'ormai nota polemica tra storia e memoria, offre agli studenti la possibilità di riflettere sul problema, avendo di fronte un documento di prima mano.

E' in questa prospettiva che mi è parso interessante cogliere anche alcuni aspetti dell'altra faccia della guerra, quella vissuta a casa. Non bisogna infatti dimenticare che la "mobilitazione totale" della società a fini bellici, costituì una delle novità della I Guerra Mondiale, rispetto ai conflitti che l'avevano preceduta. Tale mobilitazione produsse, come conseguenza immediata una maggiore interferenza dello stato nell'economia privata nel momento in cui esso diventava il principale committente dell'industria e dell'agricoltura. Ne derivò, data la necessità di prendere decisioni in modo rapido ed efficace, un'esaltazione del potere esecutivo a scapito degli organismi rappresentativi, più democratici, ma anche più lenti nelle loro procedure decisionali. A livello d'archivio comunale ciò si registra soprattutto nell'intensificazione delle circolari prefettizie e nella crescita voluminosa delle carte che vengono classificate nella categoria VIII "Leva e truppe". Ho così pensato di estrapolare dall'Archivio una serie di documenti, in modo da creare una piccola appendice al nostro diario che, sebbene non esaustiva del contesto economico e sociale dal quale Pietro proveniva, offre però tutta una serie di elementi per coglierne almeno l'atmosfera.

Macello, 30.6.1995 Valter Careglio

 

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OSELLA PIETRO

Diario di come ho trascorso la vita militare nella Grande Guerra (1915-1918)

L'arrivo al fronte e i primi spostamenti. La vita di trincea.

Son partito per Brescia il primo ottobre 1916 nel 7° reggimento bersaglieri che formarono un battaglione reclute dopo alcuni giorni siamo andati in distaccamento al Lago d'Iseo per le istruzioni, dopo sei mesi ho avuto la fortuna di avere una breve licenza concessa dal generale Beruto; ritornando al corpo la mia compagnia era già partita per il fronte: che sono poi stato trasferito a un altro reparto, ma purtroppo è venuto il giorno 21 marzo 1917, ho dovuto anch'io partire per il fronte e sono andato in Carnia che siamo poi andati a raggiungere il monte detto "Cresta Verde" e il "Pal Piccolo". Qui avevamo gli austriaci a poca distanza; c'era molta neve e andando di servizio per i sentieri bisognava avere una fune rossa, lunga diversi metri, legata al braccio che serviva di guida per rintracciarmi in caso fossimo stati sorpresi sotto le valanghe che erano molto pericolose.

 

Di notte, col pigiama bianco si andava di pattuglia per la neve a esplorare i movimenti del nemico, ma non c'erano mischie. Dopo cinque mesi che eravamo su queste montagne viene il 24 agosto 1917, scoppia una grande offensiva sul Carso da Plava al Mare, allora tutte le truppe più giovani come me da sul Trentino e in Carnia vengono trasferite sul Carso a prendere parte alla grande battaglia. Siamo partiti camminando attraverso le montagne e dopo tre giorni di marcia siamo arrivati alla stazione di Tolmezzo; abbiamo preso il treno che ci ha portati a Cervignano del Carso: di qui siamo andati a piantare le tende in un campo di Aquileia. Dopo due giorni ho avuto il destino di trovare mio cugino, Porporato Michele di Case Vecchie (Piscina) che non conoscevo ancora: siamo stati in compagnia per qualche giorno poi lui è venuto malato, ha dovuto andare all'ospedale, si siamo divisi così che io ho poi dovuto partire per le trincee, raggiungere i battaglioni che erano stati decimati nella battaglia che è poi cessata in questi giorni mentre venivo su: siamo entrati per i camminamenti mascherati; ho traversato Ronchi, Monfalcone, Doberdò poi il Vallone e abbiamo raggiunto la famosa quota 144 sull'Ermada che era sempre un bombardamento in continuo. Qui c'era dei cadaveri che erano stati sepolti da poco e camminandoci sopra di notte si inciampavamo nella punta delle scarpe rimaste fuori terra, si distaccavano dalle gambe: non c'era altro che delle scarpe sparse col piede dentro già consumato. Dopo alcuni giorni ci siamo spostati traversando le Doline del Vallone e abbiamo preso posizione in Castagnevizza e il dorso Faiti: anche qui era sempre tutto accesso dai proiettili dei cecchini. Faceva molto caldo, non c'era acqua, si soffriva di sete e anche della fame che tante volte le mitraglie austriache non lasciavano passare il rancio; e pieno di pidocchi.

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La Resistenza sul Piave

Qui appartenevo al 18° reggimento dei bersaglieri; tutti i giorni [ar]rivavano dei sbandati a consegnarsi; e stavano già organizzando nuovi battaglioni e quando siamo stati bene armati ci hanno portati di nuovo sull'argine dove si combatteva i primi giorni sul Piave. I battaglioni sono stati rinforzati anche dalla classe del '99 che era ancora in guarnigione: sono venuti su insieme a noi a fare resistenza, ché gli austriaci volevano a ogni costo passare il Piave. Qui ho letto su qualche muro [una frase] che diceva: "O il Piave o tutti accoppati". Questa era la parola d'ordine.

 

Qui tutto era da fare. Bisognava lavorare giorno e notte per fare trincee e reticolati, parapetti, sotto il tiro delle mitraglie che cantavano in continuo e si sentivano i fischietti delle pallottole che passavano: ogni tanto qualcuno veniva colpito. Faceva già molto freddo; tutte le notti gli austriaci ci facevano qualche azione: la mattina c'era lo spettacolo di vedere i morti gelati bianchi di brina.

Da queste posizioni di San Donà si è sentito dire che gli austriaci volevano venire [a] passare il Natale a Venezia, allora noi del 18° reg.to bersaglieri siamo andati a Cava Zuccherina insieme ai marinai: bisognava difendere Venezia ad ogni costo.

Questa zona erano paludi del mare e [a] forza di passare nell'acqua dei camminamenti avevo sempre i piedi bagnati e con l'aria fredda e secca di marina, dopo alcuni giorni, mi è gonfiato i piedi che non potevo più camminare: hanno dovuto tagliare le scarpe per levare i piedi da dentro. Anche altri compagni come me abbiamo dovuto andare all'ospedale a Venezia: era la vigilia del Natale 1917.

 

Dopo un mese sono uscito dall'ospedale; mi hanno mandato al convalescenziario di Ferrara, che sono poi stato fino il cinque aprile 1918 dove mi hanno mandato a raggiungere l'8° reggimento bersaglieri che si trovava al paese di Carbonera (Treviso). Di qui mi hanno mandato a rinforzare un battaglione che si trovava a Breda, dove siamo poi di nuovo andati in trincea a San Donà e poi a Candelù e a Musile: era i primi giorni di maggio, pioveva sempre, si doveva stare giù nelle trincee fangate, con i vestiti bagnati addosso magari già da otto giorni.

Ma finalmente mi è arrivata la licenza: da tanto tempo l'aspettavo. Sono poi giunto a casa il 12 maggio 1918, che ho potuto aiutare mio papà ai lavori del fieno. Sono poi partito per il corpo il primo giugno, di nuovo a Breda del Piave e poi sulle stesse trincee di prima. In questi giorni si sentiva a dire che gli austriaci stavano preparando una grande offensiva contro di noi e bisognava stare attenti e ben preparati.

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Analizzare la fonte: un percorso di lettura

A partire dalla fine degli anni Settanta l'influsso della storia sociale e della storia della mentalità hanno sollecitato un ripensamento dell'elaborazione storiografica dell'esperienza della Grande Guerra che ha contribuito a mettere a fuoco la sua centralità come evento spartiacque del secolo. Un processo al quale ha contribuito l'individuazione di fonti diverse da quelle tradizionali che permettessero di leggere i mutamenti culturali che avevano coinvolto la sfera dell'immaginario, delle rappresentazioni sociali e delle identità collettive. Il corpus della scrittura popolare sulla I Guerra Mondiale si è quindi arricchito negli ultimi anni di documenti molto diversi che vanno dagli epistolari, ai diari alla produzione memorialistica.

Il documento che viene qui pubblicato se per un verso può essere associato alla letteratura diaristica, non fosse altro per l'intenzionalità con cui lo stesso Pietro Osella indica programmaticamente il contenuto della propria scrittura, per un altro eccede la definizione di diario, inteso come una scrittura tenuta in contemporanea agli avvenimenti e ritmata dalle scansioni giornaliere. Esso si presenta, quindi, come un materiale assai più complesso e stratificato, rispetto alle scritture autobiografiche coeve alla prima guerra mondiale, in cui una serie di appunti presi nel corso degli avvenimenti giungono, attraverso la riscrittura e la rielaborazione, ad una memoria scritta solo a distanza di molti decenni.

Si tratta dunque di comprendere come leggere la complessità di un documento in cui l'evento storico ci viene restituito attraverso il filtro della soggettività individuale. La natura delle fonti autobiografiche è infatti profondamente diversa da quella delle fonti a cui siamo più familiarizzati. Esse si presentano come "oggetti culturali", a proposito dei quali lo storico inglese Robert Darnton ha scritto: "essi non sono prodotti dallo storico, ma da coloro che egli studia. Essi emanano significato. Bisogna leggerli, non contarli".

 

Raccontare la Grande Guerra

Ogni racconto implica una selezione che contribuisce a definire i confini all'interno dei quali la narrazione può assumere significato. Leggere un testo significa quindi in primo luogo riconoscerne l'organizzazione interna, le relazioni tra detto e non detto, tra parola e silenzio. Pietro partito diciannovenne per la guerra, non ci dice nulla della sua vita precedente, così come non accenna a quali conseguenze quegli eventi ebbero nel periodo successivo della sua vita. L'esperienza della partecipazione al primo conflitto mondiale ci viene presentata come messa tra due parentesi, tra una partenza e un ritorno. Una struttura narrativa che allude alla percezione di aver vissuto in due mondi assolutamente incommensurabili tra di loro. E' dunque la contraddizione che si apre tra le proprie appartenenze, il proprio mondo mentale, i luoghi abituali della vita civile e il campo d'azione del combattente a proporsi come uno degli assi centrali di significato attorno a cui si articola la memoria.

 

 

Introducendo il momento della propria partenza per il fronte Pietro scrive:"ma purtroppo è venuto il giorno 21 marzo 1917, ho dovuto anch'io partire per il fronte...". L'uso del verbo "venire" solo apparentemente allude a una relazione di semplice posterità, esso sembra piuttosto voler esprimere una sorta di estraneità di fronte all'improvviso accadere degli eventi. La guerra si rivela come una circostanza che recide ogni relazione intercorrente tra l'esperienza del singolo e lo scenario di senso che in precedenza ne garantiva legittimità e significato. La tensione tra la soggettività dell'individuo e il mondo esterno, che sta alla base di ogni scrittura autobiografica, è sottoposta, in questo caso, a un effetto di teatralizzazione, in relazione a un contesto in cui gli uomini videro annullate le possibilità di controllo su eventi che minacciavano direttamente le loro esistenze.

E' infatti significativo che questa struttura narrativa compaia in tutti i passaggi fondamentali del diario: "viene il 24 agosto 1917", "Ora a questo punto viene il 24 ottobre 1917", "purtroppo viene la mattina del 15 giugno 1918" "mentre viene il 10 luglio". Nell'impossibilità di collocare la propria esperienza in un contesto che permetta di renderla coerente e comprensibile, il racconto assume come principio ordinatore la successione cronologica degli avvenimenti. Poiché il senso sfugge all'individuo è la Storia che "viene" a fornire un senso, un significato che la narrazione ha solo il compito di esporre.

L'impressione di un evento che acquista un'autonomia e una dinamica distinta dalle intenzioni di coloro che vi concorrono fu certo ampliata dalla particolare condizione in cui si trovarono a combattere milioni di uomini, costretti tra l'immobilità passivizzante e la tensione psichica prodotta dal pericolo. Se le scritture epistolari o diaristiche scritte in contemporanea agli avvenimenti insistono sulla dimensione della guerra di trincea come un tempo vuoto, in cui l'attesa amplifica paure e inquietudini, in queste pagine l'accento sembra invece spostarsi sul secondo aspetto. La tensione si traduce in velocità, nel mutare veloce degli scenari e delle azioni. Il ritmo del tempo si sradica dalle matrici tradizionali della vita contadina fondate sulla ciclicità giovinezza/vecchiaia, notte/giorno, tempo di lavoro/tempo di riposo. La dilatazione e la scomposizione delle coordinate spazio-temporali in cui si situano le azioni del soggetto si esprime in un susseguirsi di sequenze di immagini che attraversano la scansione delle fasi principali del diario: le esplorazioni notturne, i bombardamenti, le lunghe attraversate, la massa degli sfollati, la terra bruciata, i corpi senza nome abbandonati sul campo di battaglia. Attraverso queste immagini sembra esprimersi la dimensione più lacerante dell'esperienza della guerra, l'altra faccia del racconto ritmato da sconfitte e vittorie militari codificato dalla memoria ufficiale. Esse prendono il posto del racconto, tese ad esprimere l'indicibile della guerra, quell'esperienza liminare tra vita e morte che Leed ha definito nei termini di un’industria per il macello umano specializzato. A distanza di molti anni ciò che rimane come un marchio indelebile nella memoria del soggetto, e che la scrittura tenta di arginare, è il senso di angoscia e di morte. Quegli stessi fantasmi che si possono ritrovare, sublimati e depurati, nel culto dei caduti.

Nel procedere della narrazione accanto al tempo veloce della guerra se ne incrocia un altro, quasi a fare da contrappunto al primo: è il tempo degli affetti - seppur espresso nei toni sobri e austeri tipici della cultura contadina - che trapela dall'annotazione dell'incontro con il cugino, ma è soprattutto il tempo familiare scandito dal lavoro nei campi. E' la possibilità di ricollegarsi a questa dimensione che assicura all'individuo la continuità della propria identità. Riuscire ad aiutare il padre nei "lavori del fieno" sembra essere l'unica preoccupazione di Pietro. Anche in questo caso la ricorrenza è significativa: gli accenni che appaiono in occasione delle brevi licenze sembrano in qualche modo anticipare il ritorno alla vita "borghese" con cui si conclude il diario. E' la possibilità di ricollegarsi a questa dimensione che può assicurare all'individuo qualche forma di continuità con la propria identità.

In questo modello narrativo l'andirivieni tra la rappresentazione della guerra codificata dalla memoria ufficiale e l'irrappresentabile della morte, tra il fronte e il proprio ambiente di vita, esprime sul piano dell'immaginario il conflitto tra la propria esperienza sui campi di battaglia e la propria identità. Coerentemente con questo andamento, Pietro riporta a conclusione della sua memoria il bollettino della Vittoria dello Stato Maggiore Italiano, dopo aver ricordato di aver letto sul giornale la notizia dell'Armistizio. La storia del soggetto e quella degli eventi sembrano qui mostrare in modo esplicito il conflitto che li determina.

Il racconto di Pietro Osella attraverso l'esperienza della guerra ci parla anche di qualcosa di più profondo e destinato a durare nel tempo, vale a dire dell'impatto della modernità sulla cultura contadina. L'incontro con il processo di modernizzazione è allo stesso tempo perdita e apparizione del nuovo: una modernità dispiegata nelle sue valenze di spettacolo terrificante che provoca sgomento e meraviglia, paura e stupore. L'intensità degli eventi sonori e visivi in cui Pietro si trovò coinvolto dovette essere superiore a ogni esperienza precedente. E la forza del loro impatto ci viene restituita con espressioni dense di significati: "era sempre tutto acceso dai proiettili dei cecchini", le "mitraglie che cantavano di continuo", che ci trasmettono le sensazioni ambivalenti sollevate dal dirompere di una tecnologia che avrebbe trasformato in modo irreversibile la propria percezione della realtà. La guerra è dunque qualcosa di estraneo e che, tuttavia, modifica radicalmente il proprio paesaggio mentale. Ed è lo stesso titolo che quasi ce lo rivela inconsapevolmente: a distanza di cinquant'anni da quell'esperienza per Pietro la I Guerra Mondiale continua ad essere la "Grande Guerra", quell'evento periodizzante in seguito al quale nulla sarebbe più stato come prima.

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Appendice:"Vivere la guerra a casa"

Gli archivi storici ci offrono tutta una serie di documenti che, solitamente trascurati dalla grande storia, ci ricordano che la guerra ha avuto tutta una serie di conseguenze anche per coloro che non si trovarono a viverla in prima persona.

Dall'archivio comunale di Macello, senza alcuna pretesa di sistematicità, ne ho tratti alcuni, riportandoli integralmente o parzialmente, quando alcune parti mi apparivano noiose o inutili. Si tratta soprattutto di due specie di documenti: quelli ufficiali (circolari, proclami governativi, e di associazioni) e quelli privati, compilati cioè da singoli cittadini (lettere perlopiù); per questi ultimi ho ritenuto, nella maggior parte dei casi, di dover omettere i nomi, lasciando solo le loro iniziali puntate, nel rispetto delle persone che ho citato.

 

La propaganda

Come è noto, con lo scoppio della guerra, alla propaganda interventista sui giornali, fecero immediatamente eco una serie di pressioni del governo sugli organi provinciali, affinché questi predisponessero un'adeguata propaganda a sostegno del conflitto. Riportiamo qui di seguito una missiva al sindaco di Macello della Deputazione Provinciale di Torino e l'allegata pubblicazione propagandistica destinata agli agricoltori piemontesi. Dei due documenti il secondo, oltre che per essere un classico esempio di testo propagandistico, è assai interessante perché sembra presagire fin dall'inizio una lunga durata del conflitto e individua, di conseguenza il ruolo che i contadini a casa dovranno avere nella prospettiva di una guerra di logoramento ("Voi dovete procurare anche con sacrificio, che non diminuisca la produzione del suolo, poiché, come ci ammonisce l'esempio di altre nazioni belligeranti, uno dei coefficienti importantissimi di resistenza e di vittoria è la sufficienza delle sostanze necessarie all'alimentazione"); in secondo luogo mette in evidenza la centralità che le donne verranno ad assumere via via nel corso del conflitto ("Sollevate gli uomini dalle cure del governo del bestiame e procurate di coadiuvarli, ed occorrendo di sostituirli, nella esecuzione di tutti quei lavori che anche con sacrificio vi riesca di sopportare... dopo la mobilitazione militare ovunque si incontrano donne robuste, sagge e volenterose, le quali sfrondano i gelsi, falciano i prati, aggiogano il bestiame e lo guidano, irrorano le viti e maneggiano la zappa gareggiando coi migliori lavoratori"), elemento, quest'ultimo, più volte rimarcato dalla recente storiografia.

Egregio signor sindaco Torino, 25 giugno 1915

E' opportuno che penetri nella coscienza popolare la convinzione che la guerra fu determinata non soltanto da idealità patriottiche, ma anche e specialmente dalla necessità di difendere l'integrità della Nazione, di tutelare il comune benessere del Paese contro gli attacchi dello straniero, contro prossimi tentativi di barbariche invasioni preparate da lungo tempo e preannunziate dal minaccioso contegno dell'Austria verso l'Italia negli scorsi anni.

Perciò la deputazione provinciale ha stabilito di divulgare nei comuni della nostra provincia il chiaro e persuasivo discorso pronunziato in Campidoglio dall'on.Salandra, Presidente del Consiglio dei Ministri, nel modo stesso in cui la Camera dei Deputati ordinò la diffusione dell'ispirato discorso dell'on.Boselli, che il Consiglio provinciale di Torino ha l'onore di avere a suo Presidente.

Le trasmetto due copie del predetto discorso Salandra, con preghiera di farle affiggere all'albo pretorio.

Contemporaneamente Le invio due pubblicazioni stampate a cura dell'Istituto Nazionale per le Biblioteche dei Soldati: l'una contiene suggerimenti alle famiglie degli agricoltori richiamati sotto le armi, l'altra è indirizzata agli emigranti.

Ella si compiaccia far distribuire fra gli abitanti di cotesto Comune, gli esemplari di tali due pubblicazioni, facendone pure affiggere alcune copie nell'albo pretorio.

Con stima, Il Presidente E.Borgesa

ISTITUTO NAZIONALE PER LE BIBLIOTECHE DEI SOLDATI

Fondato nel 1908

Sede. Torino, Piazza Statuto, 17

GLI AGRICOLTORI PER LA DIFESA DELLA PATRIA

Siete voi, o agricoltori, che formate il nucleo più forte della popolazione italiana, che fecondate col vostro lavoro la fonte più cospicua della ricchezza nazionale, e che siete più intimamente legati alle sorti della patria [...]

Difendere il suolo patrio vuol dire in questo momento difendere i vostri interessi contro la minaccia della oppressione straniera, difendere i vostri campi, le vostre case, le vostre donne, i vostri figli da nemici barbari, che sono l'obbrobrio della civiltà [...]

Confidate nel valore dell'esercito e dell'armata, essi combattono per causa giusta e santa, e la vittoria non può mancare. Ai vostri figli, ai vostri fratelli che rispondendo all'appello del Re e della Patria lasciano i campi arati per recarsi alle trincee infondete tutto il coraggio che inspira l'amore, ed assicurateli che durante la loro assenza raddoppierete lo zelo e l'operosità affinché tutti i lavori campestri si compiano a tempo e nel modo che si richiede per ottenere raccolti buoni e abbondanti. Scrivete sovente ai vostri soldati, specialmente per dar notizie dei bambini e dei vecchi genitori. Informateli minutamente delle vicende campestri, dell'andamento delle colture, del risultato dei singoli raccolti [...] Se non sapete o non avete agio a scrivere ricorrete a qualche persona amica, al segretario comunale, al maestro, al parroco, od a qualche buona signora; ma assolutamente non lasciate passare alcuna settimana senza mandare notizie ai vostri soldati.

E non abbiate la pretesa che essi vi rispondano subito. [...] Non bisogna allarmarsi se le risposte tardano a venire, e soprattutto non bisognare dare ascolto a tutte le notizie strampalate che si mettono in giro dagli sciocchi, dagli sfaccendati e non di rado anche dai maligni. Ricordate il proverbio dei contadini toscani: "In tempo di guerra più bugie che terra".

Mentre i soldati combattono sui campi della gloria un dovere non meno patriottico si impone a voi, o agricoltori che rimanete alla custodia dei vecchi e dei bambini, delle case e dei campi. Voi dovete procurare anche con sacrificio, che non diminuisca la produzione del suolo, poiché, come ci ammonisce l'esempio di altre nazioni belligeranti, uno dei coefficienti importantissimi di resistenza e di vittoria è la sufficienza delle sostanze necessarie all'alimentazione.[...]

I lavori che non sono strettamente necessari si possono tralasciare, e dovunque sia possibile si dovrà ricorrere per i lavori urgenti, come la fienagione e la mietitura alle macchine. Una falciatrice od una mietitrice meccanica fa il lavoro di dieci persone, e dove non manchi il bestiame si può far lavorare anche di notte.[...]

Bisogna poi che gli agricoltori di ogni frazione o borgata si accordino per aiutarsi reciprocamente, per compiere anche con disinteresse qualche lavoro indispensabile, per impedire che nel campo o nella vigna di qualche povera donna sola, o di qualche famiglia rimasta senza uomini validi, il raccolto per mancanza di cure vada perduto. [...]

Una importante missione è riservata anche a voi, o donne campagnuole.

Voi che siete le regine della casa, e che sapete i segreti dell'economia domestica, dovete vigilare con somma cura affinché nulla vada perduto di quanto si può utilizzare per l'alimentazione degli uomini e degli animali. Sollevate gli uomini dalle cure del governo del bestiame e procurate di coadiuvarli, ed occorrendo di sostituirli, nella esecuzione di tutti quei lavori che anche con sacrificio vi riesca di sopportare.

Nelle epoche normali solo in qualche regione ove gli uomini abitualmente emigrano si vedevano le donne sottoporsi ai lavori più faticosi; ma dopo la mobilitazione militare ovunque si incontrano donne robuste, sagge e volonterose, le quali sfrondano i gelsi, falciano i prati, aggiogano il bestiame e lo guidano, irrorano le viti e maneggiano la zappa gareggiando coi migliori lavoratori.[...] Quando i nostri soldati ricevendo al campo le lettere della famiglia apprenderanno che mercé l'abnegazione delle spose e delle sorelle i lavori dei campi non soffrono interruzione ed i raccolti sono assicurati, avranno più saldo il braccio e l'animo più sereno, e più riboccante il cuore di affetto per la famiglia e per la patria.

Nel corso del conflitto la propaganda affinò notevolmente i suoi strumenti e sorsero enti che si occupavano specificamente di questo aspetto. Il documento presentato qui di seguito, del 12 Ottobre 1918, è realizzato da uno di questi enti (OPERE FEDERATE DI ASSISTENZA NAZIONALE) e mi è parso particolarmente significativo per una serie di ragioni: innanzitutto perché, gli autori del testo guardano già al dopoguerra, alla necessità di consolidare l'idea di una guerra "giusta" nonostante i milioni di morti nelle trincee e individuano tra i vari destinatari delle propaganda, due categorie alle quali appoggiarsi, il clero e gli insegnanti; in secondo luogo, per la considerazione, praticamente nulla, che il documento ci offre delle masse contadine ("Anime semplici e rozze: come non hanno potuto comprendere le ragioni della guerra e gli scopi da raggiungere così non possono oggi immaginare il pericolo di perdere ... il compenso dei loro patimenti") e per i toni aspri e assurdi che, dopo tre anni di guerra e la quasi certezza della vittoria, il testo assume ("Iddio è con noi..."); infine perché nel documento, che non mette mai minimamente in dubbio la lealtà del clero, emerge invece una piccola forma di dissenso che dovette essere presente tra alcuni insegnanti ("Molti insegnanti furono, durante questi anni di guerra veramente maestri e maestri sublimi, ma non tutti").

AI COMMISSARI DELLE "OPERE FEDERATE"; ALLE AUTORITA' LOCALI; AGLI INSEGNANTI; AI DIRIGENTI LE OPERE DI ASSISTENZA CIVILE; A TUTTE LE RAPPRESENTANZE MASCHILI E FEMMINILI

Gli avvenimenti della guerra precipitano; la bilancia della giustizia pende dalla nostra parte; i popoli dell'Intesa stanno per raccogliere il frutto dei sacrifici magnanimi e della fede incrollabile nella santità della loro causa. [...]

Da più di tre anni dura il martirio; l'impazienza di vedere la fine dei mali orrendi, giusta e santa per tutti, è grande soprattutto nelle anime semplici e rozze: come non hanno potuto comprendere le ragioni della guerra e gli scopi da raggiungere così non possono oggi immaginare nella perfidia dei nemici il pericolo di perdere con una imprudenza d'illusione intempestiva il compenso dei loro patimenti ineffabili.

Occorre che tutte le persone le quali hanno influenza sull'anima del popolo raccolgano in questo momento la coscienza della loro responsabilità.

Le AUTORITA' LOCALI scelte dalla fiducia dei voti del popolo sappiano mostrarsi degne della loro funzione guidando saggiamente i propri amministrati a considerare quella che deve essere la mèta del benessere popolare presente e futuro. A qualunque parte appartengano, dichiarino l'evidenza di questa verità semplice e fondamentale, che ciascun cittadino e ciascun partito riceverà dalla guerra guadagno adeguato al contributo che avrà portato alla vittoria comune.

I MEMBRI DEL CLERO, che hanno la cura delle anime e conoscono il segreto per far vibrare le intime fibre del cuore umano, sappiano trovare ancora una volta nelle parole e nelle promesse del Cristo gli argomenti più alti per cui il sacrificio diventa voluttà di olocausto, e la pena individuale si sublima nella visione del bene che deriverà ad altri, e i rigori dei decreti divini si accettano con rassegnazione illuminata dalla fede. Dicano ai fedeli, dall'altare e dal pergamo, che oggi Iddio è con noi e noi non dobbiamo turbare lo svolgersi sublime dei disegni divini colla petulanza di umane impazienze. [...]

Io dico ai COLLEGHI INSEGNANTI: sappiamo elevare noi al di sopra di noi stessi. E' questa l'ora di dichiarare ciò che vogliamo essere nella pubblica estimazione, è l'ora di mostrare che la nostra voce non è soltanto la ripetizione fredda di piccoli insegnamenti e di aride dottrine ma è palpito di azione, che la scuola nostra non è soltanto nell'aula dove si raccolgono gli alunni ma è faro di luce per tutti e dovunque noi siamo.

Nessuno meglio di noi, privilegiati della coltura e avvezzi al quotidiano esercizio didattico, è adatto per parlare all'anima semplice del popolo, per snebbiarne le oscurità. Una parola di fede e di amore che commuova i nostri alunni ha sempre eco nelle loro famiglie e può ripetere eco di conforto anche tra i combattenti. Molti insegnanti furono durante questi anni di guerra veramente maestri e maestri sublimi, ma non tutti; occorre oggi l'opera e il supremo sforzo cosciente di tutti per la salvezza e la fortuna della Patria che sono appunto salvezza e fortuna di tutti.

AI DIRIGENTI LE OPERE DI ASSISTENZA, ALLE RAPPRESENTANZE MASCHILI E FEMMINILI, AI CITTADINI TUTTI DI BUONA VOLONTA' E DI CUORE SALDO la Patria ammonisce di compiere con stoicismo altero l'opera generosa che in questi anni ha illuminato con tante luce la filantropia e la coscienza italiana. Sia più fervida e intensa che mai l'assistenza ai combattenti e alle loro famiglie, assistenza non solo materiale ma spirituale; anche le parole affettuose e i consigli possono valere un tesoro! [...].

Su suggerimento degli editori, ho inserito anche il documento successivo che, non essendo propriamente un esempio di propaganda a sostegno del conflitto, a prima vista, mi era sembrato di scarsa considerazione. In realtà, rileggendolo, mi è parso un significativo indizio della povertà culturale che animava alcune iniziative filantropiche e paternalistiche di certi settori dell'aristocrazia italiana: il comunicato, promosso da un comitato che fa capo nientemeno che a Don Augusto Torlonia, principe di Civitella e Tesoriere del comitato, si propone infatti di raccogliere fondi per acquistare sigari ai soldati.

Mi pare evidente che i promotori dell'iniziativa avessero scarsa percezione di quale fosse la vita di trincea: il diario di Pietro, che era un fumatore, ci manifesta infatti tutta una serie di bisogni ben più urgenti di quello del fumo. Lo stesso stile usato nel testo ("[...] sotto la tenda, quando cala la sera, il soldatino che ha fatto il giorno il suo gran dovere verso la Patria...") fa piuttosto pensare che i suoi estensori, nonostante il conflitto in Europa fosse scoppiato già da un anno, siano ancora legati a un'immagine di guerra modellata sulle iconografie delle battaglie risorgimentali, al termine delle quali era forse possibile concedersi un pensiero alla famiglia fumando un buon sigaro.

COMITATO NAZIONALE PEI SIGARI AI COMBATTENTI

Sotto gli auspici della "Pro Italia"

Roma, Via Colonna 52 16 giugno 1915

Questo Comitato si propone lo scopo di raccogliere fondi per provvedere alla fornitura dei sigari pei nostri bravi soldati che combattono al confine.

Tale scopo può parere, a tutta prima, frivolo, e anche poco degno di poema e di storia; ma vi preghiamo di credere che, in realtà, esso è di suprema importanza.

Di suprema importanza, perché risponde ad uno dei più irritanti, continui bisogni, e nello stesso tempo ad uno dei bisogni meno possibili a placare in campo, se non soccorra l'affettuosa, intelligente premura dei lontani. Il sigaro, voi sapete, è altrettanto necessario a chi fuma, quanto l'acqua a chi ha sete. E poiché i nostri soldati fumano tutti, è urgente non far loro mancare il sigaro, come non si dovrebbe far loro mancare l'acqua se avessero sete. Noi dobbiamo studiarci di evitare ogni sofferenza ai nostri soldati. E la mancanza del sigaro sarebbe una grande sofferenza. Siamo tutti d'accordo in questo?

Se siamo d'accordo, sono inutili molte parole.

Le parole hanno efficacia quando servono a eccitare le profonde passioni dormienti o ad illustrare le ardue questioni incomprese. Ma quando si tratta di cose semplici, di semplici bisogni abitudinari, basta l'enunciazione di essi per convincere le anime pietose dell'assoluta necessità degli immediati provvedimenti. E qui specialmente "anime pietose", intendiamo le anime di tutti i fumatori d'Italia, che sono certamente le più adatte a comprendere il significato morale della manna del deserto, quando pensino alla gratitudine che proverebbero per lo sconosciuto errante che lasciasse cadere lungo la via senza fabbriche di tabacco e senza rivendite un sigaro lungamente desiato! Noi non saremo l'errante sconosciuto per i nostri fratelli del campo.

Provvediamo dunque anche ai sigari, per i nostri fratelli del campo! Sigari per la battaglia. E sigari per il riposo.

Voi sapete che i nostri Alpini, questi gloriosi difensori delle Porte d'Italia, questi silenziosi eroi dei nostri valichi e delle nostre cime, possono combattere anche 48 ore senza toccare il loro rancio, se hanno una cicca fra i denti da masticare. Ebbene, vorreste voi far mancare la prediletta cicca ai nostri Alpini mentre tirano l'estremo colpo contro l'aquila bicipite, che ancora ingombra il nostro cielo?

E voi anche sapete che, sotto la tenda, quando cala la sera, il soldatino che ha fatto il giorno il suo gran dovere verso la Patria, corre col desiderio dietro l'azzurra spirale del suo sigaro alla piccola casetta lontana dove la dolce famiglia pensa e parla di lui... E vorreste voi privare di quest'ora di sogno e di fantasia il nostro soldatino?

Vedete dunque, lo scopo del nostro Comitato, che a tutta prima, potrebbe apparire frivolo, è alto e nobile quanto tutti gli altri che si propongono di lenire le fatiche e i disagi del nostro esercito in guerra, ed è anche pieno di un suo profondo senso umano e di poesia!

Ma poiché ci siamo intesi e siamo oramai tutti d'accordo nel fine, provvediamo ai mezzi.

Voi forse, senza accorgervene, avrete letto fino a questo punto col sigaro in bocca il nostro manifesto. Ebbene, vuotate il vostro portasigari e il vostro portasigarette - perché ci vogliono anche le sigarette - per i nostri soldati. E anche il vostro portamonete, e quello dei vostri amici, o nemici di ieri: oggi non sono più nemici fra italiani e italiani.

E mandateci molto denaro! Perché i soldatini sono molti e hanno bisogno di fumar molto in faccia allo straniero insolente!

Aspettiamo dunque fiduciosi il vostro concorso.

Le offerte dovranno essere inviate alla "Pro Italia" in Roma - Via Colonna 52 p.p. - con vaglia diretto a Don Augusto Torlonia Principe di Civitella Cesi, Tesoriere del Comitato.

IL COMITATO

 

I sussidi alle famiglie

Dopo i toni enfatici della propaganda diamo ora voce alle persone. La richiesta di sussidi, da parte di mogli o di parenti di militari in guerra è sicuramente uno dei documenti più straordinari per comprendere appieno il clima di miseria in cui vennero a trovarsi i nostri contadini durante la guerra: situazione certamente non nuova nelle nostre campagne ma ulteriormente aggravata dalla perdita degli uomini inviati al fronte, le cui braccia erano per molte famiglie, specie per quelle dei massari, l'unica risorsa sulla quale si era fondata fino a questo momento un'economia contadina fatta di stenti.

A giudicare dalle carte contenute nell'Archivio Comunale di Macello, furono erogati numerosi sussidi, ma l'assegnazione non fu sempre regolare come mostrano queste due lettere:

Egregio Signor Sindaco

Col dovuto rispetto mi rivolgo alla S.V. desideroso di conoscere il motivo della decisione presa verso di me, a riguardo della sospensione del sussidio che a mio modo di vedere spetterebbe a mia moglie con un figlio unito, a mia madre che è oltre i 63 anni. Colle 75 lire che percepiscono tutt'oggi in qualità di cantoniere stradale, le faccio con rispetto presente, che non sono sufficiente per mantenere sia pure stentatamente, e pagare l'affitto per la madre e moglie con figlio. Vengo pure a conoscenza che altri miei compagni che percepiscono la paga di ottanta e chi ottantacinque lire mensili, non si trovano nelle mie condizioni identiche.

Umilmente sono a pregare le S.V. di degnarsi di prendere in considerazione la mia supplica. Speranzoso la S.V. farà il possibile per esaudirmi. La ringrazio fin d'ora e mi creda di lei umile servo.

Milano 4.7.1915 N.F. Soldato al 7° Reggimento Fanteria 4a Compagnia Deposito

Se avete colto il tono umile e dimesso, notate come, in questa lettera, scritta 6 giorni dopo, il tono cambi e, nel finale, si faccia addirittura minaccioso:

Ill.mo sig. Sindaco

Mi onoro accusar ricevimento del pregiato foglio n.354 del 6 corr. per il quale porgo dovute grazie.

In merito al sussidio che codesto on. Comune intenderebbe esimersi dal corrispondere alla mia famiglia, mi permetto far rispettosamente osservare che il fatto che l'On.Amministrazione Provinciale mi passi lo stipendio, quale suo dipendente, non giustifica punto l'atteggiamento del Comune in parola, sentimenti patriottici a parte.

1° Infatti l'on.Comando del 7° Fanteria per casi simili al mio, decise senz'altro che spettasse ugualmente il sussidio stabilito dal Regio Governo

2° Identica conforme disposizione è stata adottata dall'On.Comune di Milano.

3° Vi ha inoltre una circolare a firma Salandra la quale dispone tassativamente che il fatto che una Amministrazione Pubblica o Privata corrisponda ugualmente lo stipendio per l'intera durata della guerra non esime gli On.Comuni dall'erogare il sussidio stabilito a termini di legge.

L'On.Amministrazione Comunale in parola, avrà in possesso protocollata detta circolare ed in caso di dispersione potrà richiederne sempre copia alla R.Prefettura.

Non dubito che Ella On.Sig.Sindaco vorrà ristudiare la mia pratica e ne attendo in breve volgere di giorni la favorevole decisione.

Mi dorrebbe gravemente se, non essendo esaudito, dovessi denunciare all'On.Comando del mio Reg.to e contemporaneamente all'On.Prefetto di Torino, il trattamento irregolare fattomi.

Al riguardo dei ritardati sussidi ai militari, riguardanti il tempo di guerra, ricordo che altra telecircolare, pure a firma di Salandra, avverte i sig.Prefetti a dare stretto conto dell'erogazione del sussidio in proposito.

Le condizioni finanziarie della mia famiglia sono tutt'altro che floride e pertanto ho fiducia di ricevere un favorevole riscontro.

In quest'attesa colgo la grata occasione per confermarmi devotissimo

Milano 10.7.95 N.F.

Di tenore ben più umile è invece la lettera di questa contadina, che denuncia al sindaco le proprie condizioni economiche e richiede il sussidio:

Io mi presento con questa domanda alla S.V. per avere il sussidio; il mio marito è partito alle armi e ora non ho più nessuno che pensa per me; siamo soltanto poveri massari che abbiamo niente che le braccia per lavorare se Dio ne concede la salute; da casa mia ho niente e qui li altri non sono obbligati a lavorare per me: se essi mi vorrebbero fare fuori di casa, che cosa sono io?

Mi firmo P.L. Cascina R.

Le preoccupazioni di questa donna, di trovarsi da un giorno all'altro in mezzo alla strada, non dovevano essere poi così ingiustificate, se si osserva che altre lettere, come quella che segue, denunciano effettivamente situazioni del genere:

Rispettabile commissione

Il sottoscritto C. N., d'anni 36, padre di quattro bimbi col maggiorenne di 9 anni, ed il padre di settant'anni dichiara che non si sente assolutamente capace di sopportare pesi del mantenimento della mia cognata e dei quattro bimbi. Perciò, se non goderanno il suo sussidio governativo, io dovrò invitarli ad uscire di casa. La prego di voler scusare il mio ardire La saluto ringraziando

Queste lettere ben esprimono il disagio che le donne dovettero sostenere durante il primo conflitto mondiale, ma mostrano solo in parte le conseguenze dello stravolgimento dei compiti e dei ruoli all'interno della famiglia contadina, come mette in luce invece una testimonianza proveniente dalla Pianura Padana:

In quegli anni di guerra le donne contadine e braccianti, quando tornavano a casa dopo una giornata di duro lavoro compiuto per sostituire gli uomini, potevano anche trovare i loro neonati morti nelle culle. Invano i piccoli piangevano nelle luride stanze delle case coloniche, invocando la mamma. Questa era lontana nei campi, a caricare erba e fieno insieme ai ragazzi, e non sarebbe potuta tornare a casa fin quando l'erba non fosse tutta falciata e il carro carico per il bestiame. Invano i bambini agitavano le manine per difendersi dalle mosche che, attirate dall'odore di latte, entravano nella bocca, si posavano sugli occhi, nelle orecchie. Nelle decrepite bicocche dei contadini, dagli infissi sconnessi e senza vetri, come a casa mia, le mosche entravano a nugoli propagando ogni sorta di malattie infettive.

Man mano che la guerra prosegue, anche in materia di sussidi, fanno la loro comparsa gli speculatori. Una lettera scritta al sindaco da L.Barbera, uno dei notabili del paese, denuncia apertamente come, anche in momenti di grave necessità e difficoltà, l'egoismo individuale tenda a prendere il sopravvento e si verifichino sperequazioni e ingiustizie. Si tratta di un documento straordinario che mostra con grande lucidità le difficoltà che operai e contadini si trovarono a vivere nei mesi che precedettero la disfatta di Caporetto:

Pinerolo 25.1.1917

Illustrissimo signor sindaco, nell'inviarle l'adesione alla sottoscrizione in favore delle famiglie dei nostri soldati, per la somma di lire 20 che le farò pervenire alla prima occasione, mi permetto di sottoporre al giudizio della S.V. e degli Egregi Componenti il Comitato d'Assistenza civile, alcune mie considerazioni di cui si terrà il conto che si crederà.

Anzitutto se vi sono effettivamente famiglie che soffrono nella indigenza per causa della guerra, mi pare opportuno che il Comune si valga senz'altro della facoltà concessagli dal Decreto Luogotenenziale e imponga un contributo: tutti debbono concorrere all'opera santa di alleviare la sofferenza delle famiglie dei valorosi che si espongono ai peggiori bisogni e ai più gravi pericoli per difenderci.

Col sistema delle oblazioni volontarie vi è chi dà e chi non dà; e vi è chi non dà nella misura dovuta. Nella distribuzione dei sussidi poi occorrerebbe procedere con la massima oculatezza e tenere presente che i bisogni delle famiglie non sono uguali.

Così la condizione della famiglia di un operaio che presti l'opera sua nelle fabbriche al munizionamento è relativamente buona rispetto a quella di chi si trova in zona di guerra, per la differenza fra l'alta mercede corrisposta il primo e la modesta indennità che la legge fissa per la famiglia del secondo.

Inoltre i danni materiali cagionati dalla guerra sono maggiori per le famiglie operaie che per le famiglie degli agricoltori; per le quali ultime il danno recato dall'alto prezzo della manodopera è largamente compensato dall'alto costo dei prodotti della terra.

La distribuzione della somma raccolta per lo stesso scopo l'anno scorso ha dato luogo a lagnanze e proteste delle quali alcune non infondate. Io stesso mi meravigliai di veder considerate come indigenti persone lo stato economico delle quali è notoriamente ottimo: e più mi meravigliai che quelle famiglie non comprendessero come meglio avrebbero provveduto alla loro dignità e rispettato le norme dell'equità rifiutando un soccorso di cui non avevano bisogno e che avrebbe assottigliato la parte dei veramente bisognosi. Proteste e lagnanze queste che stillano nell'animo dei ladroneggiati l'amarezza e generano nell'animo di tutti il sospetto che inaridisce le fonti della beneficenza. Mi voglia perdonare, signor sindaco, la mia franchezza: il momento che il Paese attraversa impone che ogni cittadino nell'ampia o angusta cerchia della sua attività dica e operi quanto l'amor di patria gli suggerisce.

Con Osservanza L.Barbera

Le osservazioni di Barbera, man mano che le condizioni si aggravavano con il proseguimento della guerra, dovettero comunque dare adito ad una maggiore attenzione nella destinazione dei sussidi alle famiglie. In un documento del 1918, la Commissione addetta all'assegnazione dei sussidi su 17 domande pervenute, ne respinge 5; le motivazioni confermano le lamentele di Barbera: "essere proprietario di una discreta proprietà fondiaria e la famiglia di lui tutta al lavoro", "per non trovarsi in condizioni bisognose via finanziariamente, via per quanto riflette la sua famiglia, non priva di uomini validi al lavoro, quantunque abbia il figlio alle armi"; ecc.

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Appendice seconda: una lettera scritta dopo la disfatta di Caporetto

Dopo la pubblicazione della prima edizione del libro sono venuto in possesso di questa lettera, che Pietro scrisse dal fronte dopo Caporetto. Il testo, al di là di alcuni di sintassi che non emergono nel diario, scritto posteriormente, è interessante per una serie di ragioni. Innanzitutto arricchisce il quadro che ci siamo fatti di Pietro mostrando una devozione religiosa che dalla lettura del diario non emergeva nettamente. In secondo luogo per l'orizzonte mentale che il testo mostra, per nulla rivolto agli eventi della guerra e invece interamente investito sugli affetti familiari e su riferimenti a Macello: significativo, in proposito è il paragone tra un piccolo torrente quale il Chisone e un fiume come il Piave che Pietro definisce "uguali". Infine è evidente che, la mancanza di qualsiasi riferimento a quanto era accaduto a Caporetto, dimostra come, dopo due anni di guerra, le regole della censura abbiamo finito per educare i soldati ad una consapevole autocensura, che avrebbe poi trovato sfogo nella produzione di diari.

Indirizzo: 18° Reggmento Bersaglieri III Compagnia. Reparto Zappatori zona di guerra.

Zona di guerra 20.11.1917

Cari genitori, vi faccio l'arrincontro alla vostra lettera che ho ricevuto ieri il quale mi ha fatto contento che state tutti bene e così, grazie a Dio, posso assicurarvi anche della mia ottima salute, per il momento.

Cari genitori voi mi dice che stavi già molti in pena che non avevi più notizie ma non è causa mia; le poste in questi giorni credo che era una fortuna perché nemmeno noi non abbiamo più avuto niente posta da nessuna ma, pazienza.

Voi mi dite che mi scrivete due lettere alla settimana e io ne ho avuta una che mi avete scritto voi il 27 del 10 e poi ho avuto questa lettera ieri che mi avete scritto l'11 di questo mese ma ogni modo basta che ci sia la salute e poi tutto va bene.

Cari genitori voi mi dite che in questi giorni forse avevo passato dei brutti giorni ma, cari genitori, non pensate male per me che io non me la passo poi tanto male; in questi giorni sono stato solo due volte al pericolo ma grazie a Dio mi ha sempre liberato e sono contento che mi avete detto che fate celebrare delle funzioni di ringraziamento; la medaglia che ho al collo la tengo per memoria e sarò riconoscente con la madonna della consolata se mi dà la fortuna di ritornare sano e salvo ora che sono in riposo e spero di starci molto tempo. Basta voi non state in pena per me se ferito poi di scrivere che verrà delle poste e se Dio vuole di darvi buone notizie.

Ora vi faccio sapere che sono in Italia, sono verso Treviso e sono a un fiume che si chiama Piave; è come il Fiume del Chisone e il fronte è qui. Ma noi zappatori speriamo di star meglio, fino adesso il Signore mi ha sempre fatto passare il tempo ancora bene e così spero per l'avvenire. Son contento che mi avete dato anche notizie buone del cognato; io da qui non so più niente. Tanti saluti al cognato da parte mia, come se la passa? Basta, cari genitori, per ora vi lascio coi più sinceri saluti e tanti baci, sperando di sempre darvi buone notizie se Dio vuole; vi lascio i saluti ai padroni, l'altra volta non li ho dati perché credevo che fossero già a Torino e tanti saluti ai sig.ri Beruto e tanti saluti ai parenti e tanti a Bertone Andrea che mi dice che è in convalescenza a Airgli, che starà molto tempo qui a casa. Basta. Addio, addio, vi stringo la mano, sono il vostro figlio Pietro, ciau.

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